Teoria Allargata Dei Giochi - 2008
Galleria Novalis - Torino
Maria Cristina Strati
Osservando i lavori di Nathalie Du Pasquier si è subito catturati dalla
morbida plasticità delle composizioni.
Subito gli occhi si posano sui colori tenui e sull’ironia, insieme delicata
e maliziosa, delle inconsuete associazioni di oggetti e figure. A uno sguardo
più attento affiora anche la qualità eterea e ritmata della
luce, che scandisce in maniera quasi musicale i contorni degli oggetti. Soggetto
di questi lavori sono sempre cose comuni, che appartengono alla quotidianità.
Si tratta di oggetti che l’artista si trova intorno nel proprio studio,
che poi vengono assemblati in combinazioni originali. L’accostamento
dei vari elementi che compongono una natura morta o una scultura pare produrre
in essi un mutamento essenziale. Le cose di tutti i giorni perdono la loro
originaria funzione legata all’uso concreto e pragmatico, sembrano porsi
in dialogo e in ascolto gli uni degli altri per trovare nuove e inattese possibilità
formali. Si delineano così due piani di esperienza. Il primo è
quello dell’artista, che lavora a partire dalla percezione reale e concreta
di oggetti appartenenti al quotidiano, creando un nuovo ordine di realtà
all’interno dell’opera. Il secondo piano riguarda invece il fruitore,
che nel proprio mondo reale e concreto incontra un nuovo oggetto di percezione:
il lavoro artistico e il mondo di realtà poetica che questo porta con
sé.
Veniamo ora alla genesi della composizione. Gli assemblaggi di oggetti raffigurati
nelle nature morte non sono concepiti a partire da una griglia razionale prestabilita.
Il lavoro non si riduce ad una allegoresi o a un rebus teorico da decifrare,
ma si pone piuttosto come un componimento poetico o musicale, dove l’elemento
narrativo o simbolico è per lo più affidato alla libera fantasia
del fruitore.
Nel gioco di combinazione e ricostruzione della realtà, luci ed ombre,
masse e vuoti hanno lo stesso peso. Ne nasce un equilibrio fatto di tensioni
contrapposte, ma bilanciate. Anche nelle sculture Nathalie Du Pasquier lavora
a partire da materiali già esistenti, fino a fare talora della scultura
stessa il soggetto di una nuova realizzazione pittorica. L’artista compie
così un percorso verso l’astrazione, dove volumi e colori, pieni
e vuoti danno vita a composizioni via via sempre più pure. Gli oggetti
stessi svelano una loro ritmata musicalità. Ciò è dovuto
al modo stesso, intuitivo e visivo, in cui essi sono accostati, collocati
l’uno a fianco all’altro, l’uno a creare con l’altro
una nuova figura plastica. Ogni volta la forma definitiva si percepisce rotonda
e duttile nella sua florida pienezza, a dar vita ad una sorta di architettura
silenziosa e euritmica. Ma è importante notare come questa stessa forma
armoniosa sia anche sempre fatta anche di spazi vuoti, di ombre e di incavi.
Il risultato finale non è dunque qualcosa di perfetto - cioè
statico e finito in sé stesso - quanto piuttosto un’armonia che
nasce da quasi impercettibili anomalie e discrepanze. Il procedimento di assemblaggio
a cui Nathalie Du Pasquier ricorre nei suoi lavori, fa venire in mente i collages
dell’arte del primo novecento: dai primi esperimenti cubisti, al futurismo,
ma soprattutto, i lavori di Bruno Munari.
Il riferimento al maestro aiuta a leggere i lavori di Du Pasquier con maggiore
profondità. Come scriveva Umberto Eco "... L'uomo di Munari è
costretto ad avere mille occhi, sul naso, sulla nuca, sulle spalle, sulle
dita, sul sedere. E si rivolta inquieto, in un mondo che lo tempesta di stimoli
che lo assalgono da tutte le parti. Attraverso la saggezza programmatica delle
scienze esatte si scopre abitatore inquieto di un expanding universe".
Analogamente nei lavori di Nathalie Du Pasquier la percezione della realtà
che ci circonda è elevata a potenza, anche se senza molta parte dell’irruenza
descritta nelle parole di Eco. Qui la sovrabbondanza di stimoli, la molteplicità
inquieta delle possibilità compositive e il senso ludico sembrano –
pur con alcune debite differenze – consapevolmente ispirati alla poetica
di Munari. Anche se in modo pacato, qui la nostra attenzione si volge a scorgere
proprio nel nostro mondo quotidiano sintonie ed equilibri imprevedibili, che
provengono dai luoghi e dagli oggetti più impensati. E’ come
se la composizione fosse sempre tesa - non senza ironia - a valicare il limite
delle cose e della loro funzionalità oggettiva, sperimentando nuove
possibilità di vita molto oltre la semplice esperienza della loro utilizzabilità.
Lentamente, ma immancabilmente, siamo ogni volta quasi condotti per mano dall’artista
in un universo artistico sconosciuto, che dischiude modalità di esperienza
della realtà di tutti i giorni ancora inesplorate. Da un punto di vista
più ampio si potrebbe dire che l’arte qui si fa direttamente
esperienza. E nel contempo, viceversa, l’artisticità diviene
paradigma di un’esperienza profondamente umana del mondo. Il filosofo
americano John Dewey sosteneva che l’arte non è qualcosa di isolato
rispetto alla vita quotidiana, ma si pone costantemente in relazione con il
mondo ad essa esterno: in certo senso essa agisce e reagisce chimicamente
all’esperienza della quotidianità, dando luogo a visioni del
mondo inedite e stimolanti. In maniera analoga la ricerca artistica di Du
Pasquier appare sempre volta ad oltrepassare gli stereotipi e i clichè,
spingendosi al di là di una visione del mondo volta all’uso e
al consumo di cose, oggetti e utensili. E’ un modo per vedere la realtà
con occhi nuovi, alla ricerca di armonie poetiche, nella più totale
e intuitiva libertà compositiva. Così, continuamente, l’artista
mette in gioco se stessa e la propria visione del mondo. Ciò è
da intendersi nel doppio senso del giocare (con gli oggetti, le forme e i
colori) e del giocarsi: dove la posta in gioco sono insieme la creazione artistica
e la personale esperienza che da essa consegue. In altre parole, chi fa (come,
in certa misura anche chi scrive di) arte si trova sempre in una situazione
paradossale nei confronti della realtà esperienziale.
Da un lato l’artista si pone in ascolto dell’esperienza oggettiva
nella sua spontaneità concreta, al fine di coglierne le armonie e le
dissonanze nascoste o non immediatamente percepite. D’altro canto però
il procedimento creativo è sempre volto a valutare le qualità
e le proprietà delle cose e dei vissuti umani condivisibili, in vista
di una loro libera interpretazione e ricomposizione secondo nuovi paradigmi
poetici. In questo senso la visione della realtà, per l’artista,
ha insieme una caratteristica ricettiva e una attiva. Per un verso ha a che
vedere con il porsi in ascolto del reale come esso è, in senso quasi
fenomenologico. Ma per altro verso ha anche a che fare con la manipolazione
degli elementi – siano essi corporei e tangibili, oppure appartenenti
alla sfera emotiva o concettuale - in senso creativo. Per soddisfare questo
duplice intento, chi fa arte si pone spesso alla ricerca delle zone d’ombra
della realtà, dei suoi elementi segreti e inconfessati. Sono questi
i luoghi (fisici o mentali) dove anche i semplici oggetti possono affrancarsi
dal loro mero valore d’uso, mettendosi in gioco all’interno di
un mondo poetico ancora da inventare. Così facendo, le cose di tutti
i giorni sembrano finalmente liberare il loro potenziale poetico, mentre l’artista
trova lo spazio creativo per dare forma al suo proprio universo espressivo.
Dove l’artista dialoga con il mondo che percepisce attorno a sé,
in questo doppio movimento di ascolto ricettivo e intervento attivo, noi fruitori
siamo invece invitati a relazionarci con le opere stesse. L’arte ci
aiuta così ad abitare la distanza tra noi e gli oggetti, ad ascoltare
i ritmi taciuti, meno ovvi e usuali, del nostro stesso vivere quotidiano.
Proprio per questa ragione, com’è ovvio, l’arte contemporanea
difficilmente può avere a che fare con la ricerca della perfezione
formale. Si tratta piuttosto, quasi sempre, del contrario. Fare arte è
inventare un equilibrio che nasce da tensioni contrapposte. E’ creare
qualcosa che induce chi guarda, volente o nolente, a riflettere senza accontentarsi
dell’apparenza fine a se stessa. Ma è anche immaginare qualcosa
che prima non c’era, che invita chi guarda a sostare su aspetti della
realtà che lo circonda che altrimenti passerebbero (dal punto di vista
esistenziale forse molto infelicemente) inosservati. Così, in altre
parole, Nathalie Du Pasquier ci invita a leggere il mondo delle cose intorno
a noi sperimentando sempre nuove ipotesi. Non si tratta però tanto
di scoprire un nuovo ordine di realtà o di verità, quanto piuttosto
di osare una personale descrizione del mondo e degli oggetti che ne fanno
parte. Siamo alla ricerca di nuovi significati e armonie, nuovi racconti possibili
che noi stessi siamo invitati a creare. Come si è detto però,
in questi lavori la dimensione narrativa non è esplicita. Soprattutto,
il “racconto” non è fatto di parole, ma si sviluppa tutto
in forme e colori, oltre il linguaggio verbale. I corpi reali degli oggetti
diventano pretesti per creare forme e composizioni pittoriche o scultoree,
cercando un’architettura degli oggetti dal retrogusto ludico. Proprio
per questo, il processo di assemblaggio di oggetti e forme attraverso cui
Nathalie Du Pasquier compone le sue opere, non conduce mai ad una complicazione,
nel senso di un arricchimento sovrabbondante o addirittura manieristico della
realtà oggettiva. Si tratta piuttosto del contrario. Nathalie Du Pasquier
agisce semplificando, privando volutamente i propri lavori di ogni fioritura
o ornamento superfluo all’essenzialità dell’insieme.
Parafrasando Kant si può forse dire che, in questo libero gioco di
intelletto e immaginazione, l’apparente regolarità dell’insieme
nasce da proporzioni e ritmi che nascono dove non ci aspetteremmo di trovarli.
I vuoti, persino le quasi impercettibili stonature, creano un andamento piacevole
a seguirsi.
Tutto si modula, si pone alla ricerca non di una muta perfezione formale (che
sarebbe muta perché non avrebbe nulla da dire), ma di una completezza
poetica fatta di un’alternanza di proporzioni e sospensioni solo apparentemente
fortuite e accidentali. Viene così alla luce un linguaggio che “parla”
le cose e gli oggetti come se fossero parole di un discorso. Come un dialogo
giocoso con la realtà, senza un senso prestabilito a priori, ma che
crea e inventa sempre nuovi significati. Oppure come versi di fiabe o poesie
contemporanee, liriche chiavi d’accesso agli aspetti meno evidenti e
più poetici della nostra ordinaria quotidianità.